dell'archeologo dott. Francesco Rubat Borel
Sopraintendenza dei Beni Archeologici del Piemonte
Attorno al 200 a.C. le lingue celtiche erano parlate su buona parte dell’Europa, dalla Spagna centrale alla Boemia, dal cuore della Turchia alla Romagna e all’Inghilterra. Duemiladuecent’anni dopo appena un milione di persone ha come madre lingua le discendenti questi idiomi, ai margini estremi dell’antica area di diffusione, in Irlanda, Galles, Scozia e Bretagna.
La vicenda delle lingue celtiche può essere presa ad esempio della fortuna, dell’espansione ed alla fine della morte di una lingua. L’inserimento nel più vasto mondo romano ed infine l’arrivo di invasori che portavano lingue germaniche fecero sì che gli ultimi parlanti celtico cessassero di usare il proprio idioma e di trasmetterlo ai figli. Nel V secolo d.C. in Gallia non doveva esserci più nessuno, o quasi, che parlasse gallico e sull’estrema penisola occidentale arrivarono degli invasori dalla Britannia che portarono la loro lingua: il bretone. Lo stesso accadde nel resto d’Europa: attorno a quei tempi sparirono tutte le lingue del mondo antico, tranne il latino e il greco, e anche loro si videro pesantemente ridimensionati. Soli sopravvissero, come isole in un mare latino, germanico, slavo, quegli idiomi di terre impervie che restarono estranee alle invasioni dell’alto Medioevo: il basco sui Pirenei, l’albanese sulle montagne dei Balcani, le lingue celtiche insulari. Al di là del Mediterraneo stessa fine fecero le grandi lingue sommerse dall’arabo, estinte o ridotte a poche migliaia di parlanti: il copto discendente dell’antico egizio, l’aramaico, il berbero.
Ma torniamo a noi. Che rimane allora del gallico, del celtiberico, delle parlate della Cisalpina?
Alcune centinaia di iscrizioni, qualche decina di parole tramandateci dagli scrittori latini e greci o ancora presenti addirittura nelle lingue moderne.
Ricordiamo subito che non è vero che i Celti non scrivessero. Cesare è chiaro al riguardo: i druidi non mettevano per iscritto le loro dottrine, per il resto la scrittura era ben usata, tant’è vero che esistevano i dati del censimento degli Elvezi. Le iscrizioni più antiche vengono dalla Cisalpina tra Piemonte e Lombardia, a partire dal 600 a.C., scritte in un alfabeto derivato da quello etrusco. Dalla fine del III secolo a.C. abbiamo le iscrizioni celtiberiche dalla Spagna centrale, in una complessa scrittura sillabica, mentre nel Sud della Francia fu usato l’alfabeto greco. Con la conquista romana, sarà l’alfabeto latino ad essere impiegato in Gallia.
Cosa dicono queste oltre mille iscrizioni? Purtroppo poco, per lo più sono monumenti funerari (il nome del defunto, i parenti, qualche formula), segni di proprietà (il nome di chi possedeva il vaso o la spada o la fusaiola) e legende monetarie (nomi di popoli e di magistrati) e quando si ha la fortuna di trovare testi più complessi (monumenti pubblici, contratti, formule magiche), per lo più se ne capisce a grandi linee il testo, ma nulla più. Vi propongo un esempio: prendete il foglietto di istruzioni di un elettrodomestico, con le parti in diverse lingue. A senso, o per qualche assonanza, capirete i nomi dei pulsanti della tastiera in olandese (se sapete l’inglese o il tedesco) o magari in polacco, ma naufragherete davanti a un testo più lungo: eppure avete tra le mani una bilingue, accanto avete la traduzione italiana! L’interpretazione di questi monumenti è faticosa, passando attraverso a somiglianze con le lingue celtiche medievali (irlandese e gallese) o di altre lingue imparentate, seppure più lontane (le lingue indoeuropee: latino, greco, germanico...): tornando all’esempio di prima, noi italiani o francesi possiamo provare a leggere sempre sullo stesso foglietto di istruzioni le parti in portoghese o rumeno.
Tuttavia, delle lingue celtiche conosciamo molte parole per alcuni settori del lessico. Uno di questi è il vocabolario del metallurgo, per i gioielli e soprattutto per le armi. Non illudetevi, poca cosa, pari a quegli elenchi delle cose più importanti che potete trovare sulle guide turistiche di un paese straniero...
Terminata questa ampia e necessaria introduzione, torniamo al titolo: aidu isarnonc. In gallico sono le due parole più importanti per un fabbro: il fuoco e il ferro. Aidu è il fuoco, il calore, probabilmente alla base del nome del grande popolo degli Aedui, imparentato con altre rare parole delle lingue indoeuropee come il latino aedes ‘focolare, tempio, casa’ e il greco aîthos ‘fiamma, incendio’. Anche tessi-, tei-, teno- significano ‘calore, fuoco’, ma non è chiara la differenza tra questi e aidu (pensiamo agli italiani fuoco, fiamma, calore...). Isarnon è invece il ferro ed è ancora oggi parola presente anche nell’antico irlandese íarnn, nel bretone houarn, nel gallese haern. È probabile che le lingue germaniche abbiano acquisito questa parola al contatto con i più abili fabbri celtici: inglese iron, tedesco Eisen. Poiché il momento in cui le lingue indoeuropee si sono separate (il III millennio a.C.?) il ferro non era ancora utilizzato (in Europa occidentale lo sarà diffusamente solo dall’VIII-VII secolo a.C.) in origine doveva significare genericamente ‘metallo’ e quindi essere imparentato con il latino aes e il sanscrito ayah ‘rame, bronzo’. Oppure, poiché inizialmente si conosceva solamente il ferro presente nei meteoriti, può essere legato a aisar ‘cielo, divinità’, ma è etimologia dubbia. O anche un’evoluzione di un’antica parola per ‘sangue’, per il colore rosso della ruggine. Cos’è invece il -c alla fine? Non è un errore di stampa: è una congiunzione posta alla fine della parola, come il latino -que di SPQR Senatus Populusque Romanus, il Senato E il Popolo Romano. Nel celtico della Cisalpina era invece -pe, come sul vaso per il vino dedicato ad una coppia di sposi latumarui lapsutaipe, a Latumaros e Sapsuta.
I fabbri celtici erano famosi nell’antichità per le loro capacità. Assieme alle tradizioni centroeuropee, nel corso del V secolo a.C. fu determinante il confronto con le tecniche di lavorazione greche e soprattutto etrusche: da questo incontro e con un grande vigore innovativo e sperimentalistico anche nella rielaborazione artistica prese avvio la stupenda bronzistica dell’Antico La Tène. È significativo che Plinio il Vecchio, ben informato sulle tecnologia antica, attribuisca ad un metallurgo celtico transalpino la causa della migrazione dei Galli in Italia: «Elicone, della tribù degli Elvezi, che aveva soggiornato a Roma per l’attività di metallurgo (febrilem ob artem), tornando in patria portò con sé fichi secchi, uva e assaggi di olio e di vino». Credo che Elicone, sia venuto nell’Etruria meridionale più ad imparare che per esercitare la propria attività.
In patria, Elicone era un goben- o gobanos ‘fabbro’: ad Alesia la corporazione dei fabbri dedicò un edificio pubblico (celicnon) la cui funzione non è ancora chiara e proprio nel territorio elvetico si trova una dedica a un dio fabbro (ma ci sono dei dubbi sull’autenticità dell’iscrizione). Per il fabbro esiste anche la parola, ma che sia davvero celtica non è sicuro, uecturius.
Il crogiolo forse era souxtu, suxtu, che in Gallia è presente su un piatto in ceramica fine, ma che troviamo con il significato che a noi interessa in Irlanda. Tra gli altri strumenti, oltre l’incudine enemno-, il fabbro forse usava la scota, un ferro con due estremità per tagliare e raschiare, la gulbia o gubia ‘cesello, sgorbia’, e il cellos ‘martello’ anche se ci è noto più che altro per carpentieri e bottai. L’ordos invece più che ‘martello’ significherà ‘mazza’, l’arma. Un chiodo di ferro è tarinca. E ciò che sempre caratterizza un fabbro e la sua officina (che non è sicuro che si dicesse sessum) agli occhi di un estraneo sono la cenere, la polvere uluos, e la caligine sudia.
In Plinio troviamo inoltre buona parte del lessico minerario perché le miniere d’oro e d’argento delle terre celtiche erano intensamente sfruttate con tecnologie efficaci: in Spagna (a contatto però con altre lingue, come l’iberico), nel Piemonte settentrionale, nel Limousin, in Carinzia. Molti di questi termini tecnici sono entrati in latino, ma qui non ci occuperemo delle attività minerarie, se non per i nomi delle materie prime che riguardano i nostri fabbri e orefici. Già abbiamo visto il ferro, isarnon. Arganton è l’argento, e forse per estensione anche il denaro (argantodanos e argantocomaterecos i magistrati che presiedono alla coniazione, Argantonios il semimitico ricchissimo re delle coste andaluse nel VII-VI secolo a.C., ma le coniazioni in oro erano amactum). Cassi- è lo stagno e forse per estensione il bronzo, da cui il greco kassíteros e le Isole Cassiteridi, a ovest della Cornovaglia: poiché lo stagno si trova solo in poche regioni, quasi esclusivamente sulle coste atlantiche (Portogallo, Bretagna, Cornovaglia, Galles, Irlanda), chi ne possedeva i giacimenti e chi ne controllava i commerci verso le grandi civiltà mediterranee acquisiva grandi ricchezze. D’altra parte, c’è la proposta che anche il latino stagnum ‘stagno’ sia proprio un prestito dal celtico. Non abbiamo il nome dell’oro e sui suoi giacimenti, forse più che celtiche vengono da altre lingue (l’iberico) parole come gandadia ‘vena aurifera’, talutium ‘terreno con vene aurifere’, apitascudis ‘polvere d’oro’, balux e baluca ‘sabbia aurifera’.